“Osa sapere” di Ivano Dionigi

Rubrica “Libri oltre le frontiere”
Suggerimenti di lettura da Anolf Emilia Romagna

“Osa sapere”
di Ivano Dionigi

In pochi qui, alle vostre spiagge, arrivammo a nuoto.
Che razza di uomini è mai questa?
Quale patria permette un uso così barbaro?
Ci negano l’asilo della sabbia, ci fanno guerra, ci vietano di soggiornare sulla riva.
Virgilio, Eneide I “Osa sapere. Contro la paura e l’ignoranza”

La citazione di Virgilio apre il libro “Osa sapere” di Ivano Dionigi (Solferino, 2019) sul quale oggi ci permettiamo qualche riflessione.
La frase di Virgilio si riferisce all’approdo di Enea, leggendario padre della stirpe romana, sulle coste libiche. Oggi che i naufraghi si rivolgono verso le nostre coste, però, le stesse frasi potrebbero essere un commento amaro alla politica dei porti chiusi. La desolazione che sentiamo proviene dal contrasto tra quanto asseriscono le nostre autorità, secondo le quali impedire gli sbarchi equivale a salvare la nostra civiltà, e il giudizio che le parole di Virgilio non ci risparmiano, definendo “barbaro” l’uso di negare un approdo a chi è in balia delle onde. Insomma, noi vorremmo salvare la civiltà, praticando la barbarie. È evidente che le due cose non stanno insieme.
Lungo tutto il libro, l’imperativo “Osa sapere” ci provoca, ci sfida a fare della grande cultura un’arma di difesa (non un oggetto da conservare) dalle mentalità degradanti figlie di questo tempo. Nell’opera risuona la voce dei classici, e non solo perché la classicità è l’ambito di ricerca in cui Ivano Dionigi ha speso la vita. Dalla penna del latinista, infatti, non giungono solo citazioni colte e parole di filosofi, ma un monito per il presente capace di mettere in crisi. “Osa sapere” è l’esortazione, e non lascia scampo ai creduli e ai demagoghi. Contesta l’ignoranza e ribalta le prospettive.
Ultimamente sentiamo utilizzare troppo spesso l’argomento della salvaguardia della nostra identità culturale come giustificazione di sentimenti xenofobi e politiche del conflitto (la nostra cultura contro quella degli altri – la lotta per la sopravvivenza culturale). Dionigi ci dice che può essere il contrario: la nostra identità culturale può salvarci dalla xenofobia e da inutili conflitti. Viene da credergli, in quanto si tratta delle affermazioni di uno dei grandi intellettuali del nostro tempo, sulla materia che lo ha condotto ai massimi livelli accademici. Se la nostra matrice culturale (la classicità) e la lingua-madre della nostra lingua (il latino) sono vissute e hanno generato nei secoli altre culture e altre lingue, è per la disponibilità a farsi contaminare, ad adattarsi ai diversi contesti e alle diverse epoche.

In “Osa sapere” non si parla solo dell’attitudine dei romani all’inclusione degli stranieri. Vari, tutti attualissimi, sono i temi che l’autore tocca: il rapporto con la tecnica, la necessità di un nuovo umanesimo, la scuola come palestra di cittadinanza, etc.
Com’è ovvio, le nostre riflessioni si soffermano sul tema dell’integrazione e dell’inclusione, perché agevolare questi processi nell’Italia di oggi è tra gli scopi della nostra organizzazione. Nel perseguimento di quest’obbiettivo, troviamo in “Osa sapere” un alleato, un amico saggio che ci ricorda come le mentalità che vediamo dominare la scena dell’oggi siano tutt’altro che inedite.
Già Tacito ci riferisce della prospettiva “nativista”, per così dire, assunta da chi chiedeva che i seggi liberatisi in Senato fossero assegnati ai romani, escludendo chi non poteva vantare origini laziali, in nome di un’antica appartenenza da preservare. La risposta dell’Imperatore Claudio è nel segno dell’inclusione: “Senatori, tutte le cose che ora si credono antiche (vetustissima) furono nuove (nova), un tempo: vi furono dapprima magistrati patrizi, poi plebei, poi Latini e infine Italici. Diventerà antica anche questa innovazione (…).” (cit. dagli Annales di Tacito).

La nostra cultura però non è fatta di sola classicità, ma si radica anche nella tradizione cristiana. Dionigi individua una consonanza tra la cultura politica dei romani, sempre nel segno dell’integrazione dei popoli stranieri (“La storia di Roma potrebbe leggersi anche come un inarrestabile processo di inclusione”) e la pagina della Pentecoste in Atti degli apostoli, in cui tutti si capivano, parlando ognuno la propria lingua. È un miracolo necessario anche oggi, in senso laico.
“Pentecoste Laica” è la suggestiva espressione utilizzata per indicare la via della convivenza in una società multietnica, come è ormai la nostra. La parola miracolo non deve scoraggiarci: i miracoli infatti avvengono ancora. Nella nostra città, Bologna, il rione Bolognina è decisamente il più multietnico. Qui la Pentecoste laica è già all’opera da tempo, silenziosamente. Alle elementari Federzoni infatti gli studenti provengono da ogni parte del mondo: a scuola si parlano più di 50 idiomi diversi e … miracolosamente ci si capisce, si cresce e si impara insieme! Dunque, la Pentecoste laica che ci viene indicata non è un’utopia, anzi, pur con tutte le difficoltà che incontra, è già reale, è primizia del futuro che vivremo. Utopico è il ritorno a una società monoetnica e inaccessibile, chiusa dentro le sue frontiere, cinta di muri invalicabili.

Comprendiamo i timori e le difficoltà che vedono all’orizzonte coloro che si vorrebbero ritirare nei confini di un Occidente omogeneo e impermeabile, comprendiamo che il vortice della Storia, sempre più accelerata, può far smarrire i punti di riferimento, ma proprio per queste ragioni riteniamo imprescindibile tenere saldo ciò che abbiamo di sacro: la parte più umana della nostra civiltà, che non può che concepire l’altro come un valore. In fondo, si tratta del modo migliore per salvare davvero la nostra cultura: renderla comunicante con la cultura degli altri, condividerla, così che divenga anche per loro un valore da conservare, un valore arricchito dall’apporto di altre culture.
Lo stesso Claudio, citato da Dionigi, in riferimento alla politica di inclusione di Roma, afferma: “Ci rammarichiamo forse che siano venuti tra noi i Balbi dalla Spagna e uomini non meno insigni dalla Gallia Narbonese? I loro discendenti vivono tuttora e dimostrano di non amare certo meno di noi la nostra patria”.
Noi di Anolf sappiamo bene che le cose stanno così: chi vive qui, in Italia, senza subire i traumi del rifiuto e della discriminazione, si integra e diviene parte organica della nostra società. Ama la nostra realtà almeno quanto la amiamo noi, giura sulle nostre leggi fondamentali (quando gli viene concesso di divenire cittadino). La patria è sì etimologicamente “terra dei padri”, ma è anche e soprattutto terra dei figli, terra di chi verrà, come indica il mito di Enea, riferimento che Dionigi pone ad incipit dell’opera. Ed è un concetto di patria aperto al futuro quello utilizzato dal Professore, che si richiama al racconto che Tito Livio fa della fondazione di Roma: perché la città non restasse vuota, Romolo offrì un luogo di rifugio (“asylum”), per chiunque volesse ripararvisi. Lo straniero così diveniva “inviolabile”.
Oggi il nostro Occidente, in pieno inverno demografico, non potrebbe inventarsi strategia migliore, per rimediare al vuoto che lascia tutti gli anni il saldo naturale negativo tra numero di nati e numero di morti.

In fondo, si tratta solo di un piccolo mutamento di prospettiva: lo straniero non più come problema, ma come risorsa. In questo gioco di prospettive le parole hanno un peso enorme, come ci aiuta a capire la trasformazione del significato della parola “hostis”, raccontata da Dionigi, in apertura del terzo capitolo.
Originariamente, la parola hostis significava “straniero con pari diritti”, poi giunge a significare “nemico”. Mentre il significato originario viene assunto dal termine hospes. Qualcosa di simile è accaduto anche oggi, nella sensibilità di molti nostri concittadini: senza che mutasse alcuna condizione oggettiva, lo straniero è divenuto un nemico.
C’è un piccolo scarto tra “hospes-amico” e “hostis-nemico”. Un movimento impercettibile della lingua che batte contro il palato a pronunciare la “t”, basta per sconvolgere il mondo delle relazioni umane.
Noi però crediamo sia possibile anche l’inverso: che le parole possano smascherare un nemico fittizio, creato ad arte, mostrando le tante persone in carne e ossa, che vivono, lavorano e amano in mezzo a noi e costituiscono un valore per la nostra società e per il nostro tempo. Conservare l’umanità, è il primo compito che dovrebbe porsi una società civile.

Recensione a cura di Lorenzo Benassi Roversi