“Liliana Segre. Il mare nero dell’indifferenza” a cura di Giuseppe Civati

Rubrica “Libri oltre le frontiere”
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Il mare nero dell'indifferenza

Incontro Giuseppe Civati a Imola in una libreria, una di quelle che tra mille difficoltà ancora resistono, luoghi fisici di cultura e pensiero nella nostra città, capaci di sfidare il digitale e la sua ipnosi. Qualcuno dice essere finita “l’èra Gutenberg”: il mondo starebbe superando il mezzo cartaceo e in generale la lettura come strumento di apprendimento e riflessione. In questa saletta, gremita di gente e incastrata in un angolo della piazza grande della città, nessuno sembra crederci. Qui si vendono libri per bambini e tutto sembra fatto per le nuove generazioni. Anche Civati, che si è lanciato nell’esperienza editoriale ed autoriale, è qui a parlare di futuro. Lo fa con un messaggio radicato nella storia del secolo scorso, ma capace di superare il tempo. È la testimonianza di Liliana Segre, ex-deportata, oggi senatrice a vita, le cui parole sono raccolte e intrecciate in “Liliana Segre, il mare nero dell’indifferenza” (2019, People).

Che cosa porta oggi ad appassionarsi alla storia della Segre?

Il suo messaggio è potente e delicato. Liliana Segre è una donna che sta al di sopra di tutte le polemiche, di tutte le parti della politica – anche se qualcuno tentato a più riprese di tirarla in mezzo – per questo il suo messaggio ha tanta vita e tanta forza. La sua testimonianza ha un valore assoluto. Non a caso il Presidente Mattarella l’ha nominata senatrice a vita, volendole riconoscere un ruolo e una presenza istituzionale. Questa scelta è anche una restituzione rispetto all’esperienza della discriminazione e della deportazione, subite quando era bambina, rispetto alle sevizie che inflissero a lei e alla sua famiglia le istituzioni di allora. Il messaggio della Segre sarebbe valido in ogni tempo, ma oggi lo è tanto di più: l’Italia ha un problema di razzismo, con alcuni ritorni anche di antisemitismo.

Interessante il parallelo tra le istituzioni di allora e quelle di oggi: le une promulgarono le leggi razziali, le altre valorizzano l’impegno civile di una ex-deportata a causa di quelle leggi.

Il punto è proprio questo. Liliana Segre con la sua storia rappresenta il fatto che dal 1938 al 1948 in Italia c’è stata una svolta. Ci aiuta a ricordare e il momento più negativo della nostra storia, unitamente al riscatto che è incominciato con la Liberazione ed è approdato all’ordinamento democratico. Dobbiamo ricordarci che in dieci anni siamo passati dalle leggi razziali alla Costituzione. Ciò significa la possibilità di avere una vita libera, costruita sulla consuetudine democratica. Liliana Segre racconta questa transizione con la sua vita.

In che termini la testimonianza di Liliana Segre si rivolge al futuro?

Innanzitutto, è un messaggio di speranza, un messaggio di rinascita. La Segre dice che la coscienza di avere vinto sugli orrori del nazismo è maturata in lei con il diventare nonna. Non a caso una volta diventata nonna ha scelto di consegnare la sua testimonianza a coloro che lei considera “i suoi nipoti ideali”: i giovani, le nuove generazioni. Da nonna, lei si racconta bambina e si rivolge a interlocutori che hanno la stessa età che lei aveva allora quando fu oggetto di deportazione. C’è un senso di connessione tra le generazioni e di costruzione comune del futuro, un passaggio di testimone, nel dialogo di Liliana Segre con i più giovani.

È stupefacente come dal ’38 al ’48 si sia verificata una rinascita della civiltà, del concetto di diritto e del concetto di individuo. Come si spiegano i moti regressivi dell’oggi?

La Storia purtroppo non è una freccia scagliata verso il progresso. La Storia è fatta di cicli, di ritorni, di regressioni. Non sempre si riesce a fare tesoro del passato. C’è una nostra responsabilità in relazione alla direzione che prendono le cose. È un monito che dovremmo sentire. Anche se le analogie con il passato sono spesso erronee, alcuni eventi, alcune atmosfere oggi sembrano famigliari più che in altri tempi.

A cosa si riferisce?

Pensiamo all’immigrazione: è una questione che nel nostro Paese è molto sentita oggi e una parte del discorso pubblico ha assunto componenti che assomigliano ai momenti meno felici del ‘900. Alcune parole d’ordine, alcuni sentimenti di fondo oggi possono suonare simili a quelli di un tempo. Non penso qualcuno oggi abbia davvero nostalgia della dittatura, ma indubbiamente è un’epoca in cui le persone non stanno bene, c’è un malessere diffuso, una povertà di orizzonti. Tutto questo rischia di suscitare il peggio di noi. Non credo a derive imminenti, ma dobbiamo imparare da quello che è successo. Liliana è una testimonianza altissima. Anche perché la sua è una testimonianza che a lei in prima persona costa cara in termini di fatica, di dolore nel rievocare ogni volta l’inferno vissuto. Non possiamo sprecarla.

Senza voler disegnare parallelismi infondati tra i giorni nostri e i tempi bui del ‘900, mi pare però di poter individuare un elemento di somiglianza nella volontà di affermare, per via politica, la diversità di alcuni.

Liliana Segre ricorda sempre che i nazisti non sono partiti da Aushwitz, che è stata la tappa finale di un percorso. Prima c’è stato il progressivo imporsi di teorie antisemite, cui ha fatto seguito una discriminazione sempre più diffusa e infine il precipitare degli eventi e la grande follia che conosciamo. Quello che la Segre ci insegna è che non si può restare indifferenti, è nostra responsabilità non lasciar correre. Io non evoco pericoli o minacce soverchianti riguardo la situazione attuale, sarebbe inutile allarmismo. Voglio però segnalare che la ricerca ossessiva di un nemico è un elemento su cui dobbiamo riflettere. Non si può liquidare la questione semplicemente adducendo che non ci sono rischi di dittatura all’orizzonte. Pensi che lo zio di Liliana Segre era fascista, probabilmente quando indossava la camicia nera non pensava che di lì a pochi anni metà della sua famiglia sarebbe stata deportata nei campi di concentramento. Poi si è iniziato a dire che gli ebrei rappresentavano il nemico e si è arrivati a quel punto. Non dobbiamo ossessionarci con il passato, ma nemmeno essere così immemori da non capire che la ricerca del nemico è tra i segnali che preoccupano.

Prima diceva che Liliana Segre è portatrice di un messaggio “delicato e potente”. Per chi è abituato al modo di fare comunicazione dei nostri giorni, è inusuale sentire questi due termini abbinati.

Forse è proprio per questo che oggi risuona di più la sua voce. Liliana dimostra che si può ancora parlare con cura e attenzione per le parole e per l’interlocutore. Chi ha davvero una storia importante da raccontare non ha bisogno di fare usare un linguaggio deformato, che crei l’effetto. Di solito è la dialettica povera di contenuto che necessita di questi mezzi per non svanire nel nulla. Un certo uso delle parole mina le basi della convivenza civile, alla lunga rovina la nostra democrazia perché rende impossibile comprendere le ragioni dell’altro. Le parole diventano oggetti contundenti lanciati come in una rissa, non strumenti di dialogo.

Intervista a cura di Lorenzo Benassi Roversi