La guerra in Siria e le macerie (morali) in Europa. Intervista a Maurizio Ambrosini

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Le piccole imbarcazioni sballottate tra le onde delle motovedette e le lunghe aste d’acciaio, impugnate come lance, a colpire le teste di madri e padri ammassati sulle capsule sgonfie dei gommoni, i corpi chinàti a proteggere i bambini. Gli occhi increduli, le mascelle rotte, i nasi sanguinanti di chi è stato bersaglio delle pallottole di gomma dura, sparate dalle autorità greche, al confine con la Turchia. Lo sbigottimento di chi è in fuga da una guerra assurda, quella che da anni devasta la Siria, e incontra un altro esercito, schierato ad attenderlo, come una maledizione cui non si può sfuggire. Sono immagini che hanno colpito la coscienza di molti, prima che l’emergenza del Coronavirus ci travolgesse, monopolizzando la nostra attenzione. La guerra in Siria impazza da anni e le sue conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: centinaia di migliaia di morti, milioni di sfollati, lo sbriciolamento materiale delle città e delle comunità. Per fermare i profughi siriani, in fuga da quest’orrore, il Governo greco non si è fatto problemi a usare metodi feroci. L’accoglienza degli anni passati si è trasformata nel filo spinato steso lungo la frontiera: cosa ci ha portati a questo? In quanto europei – e ancor più in quanto europeisti – non possiamo eludere la domanda. Per cercare una risposta, raggiungo al telefono il Prof. Maurizio Ambrosini, sociologo dell’Università di Milano, tra i massimi esperti in fatto di immigrazione.

A commento di ciò che è accaduto al confine greco-turco, Lei ha parlato di “abdicazione da parte dell’Europa”. Cosa significa quest’espressione e a quali fatti si applica?

Da una parte ci sono i richiedenti asilo siriani, in fuga dalla guerra. Dall’altra, noi, l’Europa. In mezzo, la Turchia di Erdogan, a cui da anni paghiamo miliardi per bloccare il flusso di migranti, con qualunque metodo. Adesso Erdogan minaccia di rompere il patto e dare via libera a chi intende valicare il confine europeo. Davanti a qualche migliaio di persone, la reazione dell’Europa è quella che abbiamo visto. Ciò che è successo ha segnato un passaggio cruciale nell’approccio europeo alla questione dei rifugiati e dei richiedenti asilo. Non a caso, la stampa anti-immigrazione ne ha subito approfittato. Il discorso è stato più o meno il seguente: “ora non potranno più accusarci di crudeltà quando diciamo di voler usare la forza contro i migranti. L’hanno fatto anche loro”. Ed è vero. L’Unione Europea al confine greco ha accettato l’uso di metodi simili a quelli paventati dalla retorica sovranista.

Questi fatti creano un precedente?

Non è tanto la violenza delle autorità greche a creare il precedente, ma aver approvato l’uso della violenza a livello europeo. Già in altre occasioni alcuni Stati avevano usato violenza. Pensiamo alla Spagna nei confronti dei migranti che cercavano di raggiungere le Canarie o di oltrepassare il confine con Ceuta e Melilla. Si è trattato però di episodi locali, che non hanno visto il coinvolgimento delle istituzioni europee. Qui invece abbiamo le massime autorità dell’Ue in visita al confine greco, ad avvallare i provvedimenti del Governo di Atene, definendo la Grecia “scudo d’Europa”. Una retorica bellicista degna di leader nazionalpopulisti.

Come si spiega?

Si è voluto dimostrare di non cedere al ricatto di Erdogan. Nel 2016, l’Europa negoziò accordi con la Turchia per il contenimento dei flussi migratori. Oggi Erdogan sta ricattando l’Europa, attraverso il ruolo che l’Europa stessa gli ha concesso, quello di barriera contro i migranti. Per non cedere al ricatto, l’Europa ha voluto a tutti i costi mostrarsi impermeabile ai flussi migratori. Già gli accordi con la Turchia erano in antitesi con i principi dell’Ue, l’uso della violenza è un passo ulteriore nella direzione dell’auto-rinnegamento.

C’è chi pensa che la politica dei respingimenti sia una necessità in ragione del numero già troppo alto di chi cerca rifugio in Ue.

Sono balle, se posso usare un’espressione colloquiale. Nel mondo ci sono circa 30 milioni di rifugiati, l’84% dei quali sono accolti in Paesi in via di sviluppo. L’unico Paese europeo che entra tra i primi dieci al mondo per numero di rifugiati accolti è la Germania, dove si riscontra che la maggioranza si è inserita o si sta inserendo nel mondo del lavoro.

Al confine greco-turco, abbiamo visto i metodi usati dalle autorità, ma anche migranti presi a bastonate da civili. Come si spiega?

La cosa peggiore è infatti il coinvolgimento della gente comune, anche se pare che proprio di gente comune non si tratti. In parecchi casi, è appurato siano stati militanti di estrema destra a usare la violenza. Se poi vi è un’ostilità ai migranti, va correttamente contestualizzata. In primis, bisogna sottolineare che l’opinione pubblica è molto emotiva quando si parla di questi temi. Pensiamo all’Italia: in un batter d’occhio gli operatori delle ONG sono passati dall’essere acclamati come eroi, a venire additati come scafisti. Inoltre, c’è il tema del sovraffollamento: sull’isola di Lesbo e sulle isole vicine ci sono 40 mila rifugiati per 7 mila posti. Ovvio che le condizioni di vita degenerano. Gli abitanti dell’isola iniziano a vedere migranti accampati qua e là, dove capita, il disordine, qualche episodio di microcriminalità. Condizioni di iper-concentrazione alla lunga portano esasperazione.

Si dice che l’esasperazione sia dovuta anche all’impoverimento del popolo greco negli anni successivi alla crisi.

C’erano delle politiche per la povertà che sono state tagliate per via degli immigrati? No. Questa è una costruzione retorica che subiamo anche in Italia. Si basa sull’idea che l’esistenza di fasce povere di popolazione non permetta l’accoglienza di migranti. A livello mediatico, è una semplificazione che funziona. Oggi si nota una ripresa dell’economia greca, mentre negli anni scorsi la Grecia era nel pieno della crisi, eppure il popolo greco si è prodigato nell’accoglienza con generosità.

Su Avvenire, Lei ha scritto che l’Europa sta scambiando la sua credibilità come patria dei diritti per convenienze di breve termine. Guardando al lungo termine, tornare all’accoglienza conviene all’Ue?

È una scelta di civiltà che sul lungo termine paga: ci rende più credibili nel mondo e sul fronte interno rinforza la nostra identità. Se l’Ue ricomincia a pensarsi come una federazione di Stati capace di applicare ciò in cui dice di credere, avremo ricadute positive per la coesione sociale.

Qualche tempo fa Lei ha scritto che l’Europa dovrebbe tornare alla compassione. La compassione da categoria morale può diventare una categoria politica?

Alejandro Portes, ritenuto il maggior studioso al mondo delle migrazioni, parla di “fine della compassione” per stigmatizzare le politiche anti-migratorie di Trump, che ha chiuso ai rifugiati, ostacolando addirittura i ricongiungimenti famigliari. Io ho mutuato questo termine per dire che anche in UE il criterio di ammissione di persone straniere su basi umanitarie è oggetto di visibile rinnegamento. La compassione indica la disponibilità all’accoglienza umanitaria, al rispetto dei diritti fondamentali. Se non vuole perdersi, l’Europa deve tornare qui.

Intervista a cura di Lorenzo Benassi Roversi