Ci si salva insieme dalla città che brucia. Intervista a Marco Revelli, sociologo e politologo

 

Incontro Marco Revelli nella frazione di Bose, dove sorge il famoso Monastero, isolato tra i boschi del Piemonte. Il Professore, sociologo e politologo dell’Università di Torino, terrà una conferenza dal titolo suggestivo: “Abitare la polis oggi”. È una bella giornata di sole e io capito quasi casualmente in quei luoghi. Mi fermo ad ascoltarlo, insieme ai tanti che sono affluiti per l’evento. Subito dopo l’introduzione, il discorso verte sull’atteggiamento conflittuale che il nostro Paese sembra avere nei confronti dell’immigrazione. In particolare, Revelli si sofferma sui tanti messaggi d’odio in circolazione sul web verso migranti e immigrati e sulla divisione sociale che il fenomeno migratorio, pur esiguo nei numeri, riesce a provocare al giorno d’oggi. Terminata la conferenza, colgo l’occasione e mi accordo per qualche domanda.

Partiamo dalla situazione contingente: una gran parte del Paese risulta ricettiva agli stimoli di chi demonizza il fenomeno migratorio, peraltro ormai ridotto a una portata trascurabile in termini numerici. L’Italia ha sempre avuto fama di essere una nazione aperta, accogliente. Come si spiega questo atteggiamento?

Beh, la storia manifesta la superficialità dei luoghi comuni, ora scopriamo che non siamo “italiani brava gente” e l’Italia non è così diversa dagli altri Paesi attraversati dal sovranismo. Oggi si nota il piacere di ostentare sentimenti inumani, un gusto della cattiveria che si diffonde e usa i social come moltiplicatore. Tutto ciò non si ferma al solo mondo dei social, ma si manifesta in parte anche alle urne. Indubbiamente oggi risuona forte la parola del “male”, diciamo così, sembra invece molto flebile la voce del bene, ossia di quella parte di società che non condivide le retoriche dell’inumano, ma non accenna a contrastarle efficacemente.

Lei parla di una tendenza del nostro tempo alla contraddizione del legame sociale.

Il tema centrale è il logorarsi, il ritrarsi di quella che i latini chiamavano “pietas”. La pietas è qualcosa di più complesso della semplice pietà, è un sentimento profondo di condivisione con l’altro che si esprime soprattutto nel momento in cui l’altro è nel dolore, nella difficoltà. È la capacità di manifestare solidarietà. L’immagine plastica della pietas è quella incarnata da Enea (non a caso era il mito fondativo della societas romana): un uomo che fugge da una città in fiamme, caricandosi sulle spalle un vecchio e conducendo per mano un bambino. Ci si salva insieme dalla città che brucia. Senza questo non c’è società. Oggi la pietas è diventata quasi un sentimento di cui vergognarsi: si è accusati di ipocrisia, inautenticità, buonismo.
Quel sentimento però è la parte migliore della cultura degli antichi, che avevano capito a cosa serve la pietas. Dico “serve”, uso apposta un termine funzionalista, non moralistico. La pietas serve ad alimentare il legame sociale, condizione di esistenza di qualsiasi società.
Questo sentimento non può essere considerato qualcosa di selettivo, che esclude alcune categorie. Qui sta il falso mito del sovranismo: provare vicinanza verso il compatriota, il compaesano e non verso lo straniero, il naufrago, il migrante.

Secondo Lei non è vero quindi che l’individuazione del nemico nello straniero che si approssima ai confini, rafforzi il legame tra gli abitanti della nazione?

Assolutamente no, è una falsificazione. L’accusa: “voi sprecate la vostra pietà per chi è lontano e ne private chi è vicino” è un messaggio falso. Se non la provi per il bambino siriano riverso sulla spiaggia, non la proverai nemmeno per il tuo vicino di casa. Così si finisce prigionieri di un muro sempre più alto di estraneità agli altri, tutti gli altri.

A cosa si deve questa crescente estraneità?

È il frutto patologico dell’individualismo che ha dominato l’ultimo trentennio, diventando cultura egemonica. In quell’universo di pensiero, che non a caso assolutizzava la dimensione economica, ogni legame di condivisione era inteso come limite all’io-individuale. Alla condivisione si è sostituita la competizione. L’altro è diventato avversario, ostacolo. È il gioco dell’individualismo possessivo: ciò che è mio non è tuo e non potrà mai essere “nostro”. Ci siamo ancora dentro, il sovranismo è la nuova veste di questo modo di pensare.

Torniamo a quell’atteggiamento che sembra essere di crescente disumanità quando si parla di immigrazione e di migranti.

È un’esperienza che proviamo sempre più spesso. Sui social in riferimento ai naufragi nel Mediterraneo siamo abituati a veder comparire frasi come: “i pesci avranno da mangiare” o “che affoghino tutti”. L’altro alza un muro, si nega alla più elementare compassione. È come se i neuroni specchio si chiudessero a guscio, si disattivassero. Tutto ciò che puoi dire, a quel punto non conta più. È una sensazione che sgomenta. C’è però un elemento che va considerato: chi alza il muro spesso lo fa perché si auto-percepisce vittima. C’è una inversione del rapporto vittimario. Spesso, queste persone sono convinte di avere subito o di subire ingiustizie, che non vengono riconosciute. “Anche a me è stata fatta un’ingiustizia – sembrano dire implicitamente – perché nessuno se ne preoccupa? Tutti tanta attenzione agli altri e nessuno si prende cura di me?”.

Qual è questa “ingiustizia” subita che provoca tanto risentimento?

Si tratta di una promessa mancata, di una deprivazione delle aspettative per cui molti hanno lavorato, sacrificando buona parte della propria vita. Pensiamo a quanti si sono sacrificati per far studiare figli e oggi si accorgono che non è servito a nulla, perché ben che vada i loro figli saranno precari; pensiamo a quanti hanno pagato contributi per tutta la vita e oggi non arrivano a una pensione decente. Sono le vite di quelli che hanno investito speranze su una promessa di crescita e oggi si trovano a stilare un bilancio di declino, di arretramento, di insicurezza. Pensiamo poi all’investimento narcisistico, che è la cifra propria del nostro tempo, verso cui tende tutto l’apparato pubblicitario: quando questo narcisismo si ritrova frustrato, perché non si vedono orizzonti di realizzazione personale, la delusione può rendersi velenosa.
Ovviamente, su questi sentimenti agiscono quelle che io chiamo “élites negative”, quella parte di società che ha potere e che invece di usarlo per favorire i processi di costruzione delle relazioni, lo usa per aumentare, l’odio, il rancore e tutto il complesso di passioni tristi su cui riesce a capitalizzare consenso.

Dove trovare oggi le ragioni della speranza?

È giusto l’approccio di Papa Francesco nella Laudato Si’. È un approccio olistico, teso a superare la frammentazione, considerando tutti gli elementi in relazione. È l’esatto opposto del pensiero individualista, il quale considera ogni elemento slegato dagli altri, producendo solitudine.
Nella relazione troviamo la chiave di volta. La speranza sta nella possibilità di comunicare tra umani, anche davanti all’insensibilità che atterrisce, in profondità l’umano esiste ancora. Dobbiamo ricordare che le persone non sono univoche, nemmeno quelle che siamo tentati di considerare mostri. Nemmeno la donna che davanti a un naufragio con 150 vittime ha twittato “mangino i pesci!”. Quel tweet è solo una sua faccia, dietro ce ne sono altre, e alcune di esse ci possono condurre alla sua umanità, probabilmente è lì che si può rintracciare la radice dolente che genera l’odio.

Credere nell’umanità, dunque?

Sì, credere nell’umanità è l’inizio, ma fuori dal rapporto impersonale e deresponsabilizzante dei social, che induce a un rapporto tra maschere, tra avatar, non tra persone. Non voglio sembrare un ingenuo, che crede basti uno sguardo, un sorriso, per ricucire i legami che si stanno lacerando. Dico però che riattivare la comunicazione tra le persone è una precondizione necessaria. È necessario l’incontro reale. Lì si possono aprire delle brecce nei muri che i costruttori di divisioni quotidianamente erigono.

Intervista a cura di Lorenzo Benassi Roversi